In un antichissimo e splendido paese dell'entroterra Siciliano, Cerami, un viandante procedeva lungo un "lavinaru", l'uomo, in groppa all'animale, correva immerso nei propri
impegni giornalieri, mentre la mula trascinava stancamente i propri passi, come se tutto in una volta sentisse il peso delle sue innumerevoli fatiche. Ad un tratto la mula si
arrestò di colpo. "Ehhhh!" sibilò il viandante, la mula non reagì affatto, come se non avesse sentito, anzi cominciò con lo zoccolo a battere sul suolo. "Eeehhhhh!" ripetè più forte l'uomo, nulla
da fare! La mula era ferma. Stancamente l'uomo scese dalla sua cavalcatura, dando un'occhiataccia all'animale, che imperterrito continuava a scavare nel suolo. "Ti vuoi muovere!" esclamò
mostrando alla mula il manico di un bastone, che per certo la schiena dell'animale doveva ben conoscere.
Sotto la zampa anteriore sinistra della mula, incurante del padrone, crepitavano intanto i sassi colpiti dagli insistenti calci dell'animale. "Sarà il caldo!" commentò l'uomo. "Caldo o non caldo,
io ho i miei affari! e devi muoverti" ringhiò infastidito il viandante. "E che cosa dobbiamo fare?" disse l'uomo a se stesso, tirando un profondo sospiro, poi si tolse la coppola, quindi, con il
dorso della mano, si terse il sudore dalla fronte. "Ti faccio passare io la fantasia!" sibilò alla mula, poi si abbassò la coppola sugli occhi e raccogliendo tutte le sue forze, con le briglia,
strattonò l'animale. La mula, restò impassibile al gesto dell'uomo.
In breve attorno all'uomo si raccolse un capannello di volenterosi, tutti pronti a dar consigli, ma pochi a menar le mani e tirare l'animale. A un tratto l'animale, sotto lo
sguardo stupito di tutti, si inginocchiò di fronte alla fossa che aveva da poco scavato con lo zoccolo. "Ti faccio passare io la voglia di far l'ubriaca!" gridò l'uomo colpendo con forza il dorso
della mula. Questa come di pietra rimaneva immobile, anzi con i suoi occhi languidi sembrava volergli dire: "Non sono io la tua asina sulla quale hai sempre cavalcato fino ad oggi? Sono forse
abituata ad agire così?".
Fra la folla, che nel frattempo, attratta dallo spettacolo dell'asina che pregava si era riunita numerosa, c'era un ragazzino, sudicio come mai, coperto di terra al punto tale che di lui a mala
pena si poteva distinguere il chiaro degli occhi. "Fermatevi!" gridò il fanciullo al viandante, "Fate provare me!" continuò mentre intrufolandosi fra le gambe degli spettatori in un baleno giunse
ai piedi della mula. Il giovane alzò il suo volto pieno di fuliggine sugli astanti e sorrise compiaciuto, poi prima che il viandante potesse scacciarlo a calci, a testa bassa, con le sue
unghie nere come la pece, continuò lo scavo interrotto della mula.
"Madunnuzza bedda!" esclamò il fanciullo dopo qualche minuto, mentre con
delicatezza estraeva dal suolo una lunga tavola appuntita.
Il silenzio calò pesante su tutta la folla, anche il frinire dei grilli cessò di colpo. Il ragazzo si raddrizzò sulla schiena ed accarezzò con tenerezza il fronte della tavola. Il soave volto di
Maria, dipinto con dolci tinte calde, sembrava fosse felice di rivedere la luce del sole, ma ancor di più i suoi amati figli, in mezzo ai quali voleva tornare con così tanto
amore.
"Cumpari Alfio, la vostra mula è più cristiana di voi. Toglietevi la coppola e mettetevi in ginocchio." Esclamò un paesano mentre il
viandante rimaneva ancora a bocca aperta a contemplare il proprio animale in adorazione di fronte alla Santissima Vergine.
Così ci racconta una pia tradizione che narra del ritrovamento in paese della meravigliosa icona della Madonna della Lavina. Ancora oggi molti anziani del paese riferiscono il fatto che sulla
sacra icona ritrovata era impressa l'impronta dello zoccolo della mula.
Un'altra tradizione, confortata da precisi riferimenti storici nei manoscritti del Pitrè, pur confermando lo stesso luogo di ritrovamento, vuole che il quadro giacesse sotto i ruderi del convento
delle suore benedettine. La Vergine Maria stessa, apparsa in sogno ad una delle suore del convento, indicò il luogo dove si trovava il quadro. La suora, subito dopo la funzione del mattutino,
chiese di parlare con l'Arciprete per chiederne l'aiuto, ma quest'ultimo, piuttosto scettico, non diede alcun credito alle parole della religiosa. Il sogno si ripeté per altre due volte.
Alla terza visione, la Madonna ebbe a dire alla suora benedettina che, data la noncuranza del sacerdote, avrebbe provveduto da sè a riportare alla luce il dipinto, mandando un fortissimo
temporale. Il giorno seguente il sogno si avverò. Un fortissimo temporale si scatenò sul paese, spazzando via ogni cosa e gonfiando fino a non dire il "lavinaru". D'un tratto la pioggia cessò di
colpo ed una trave in legno, su cui era inchiodato il quadro, fu vista galleggiare nella lavina. La notizia fece subito il giro, anche nei paesi vicini: l'Arciprete, pentito della sua inerzia,
fece suonare a distesa le campane; una gran folla si recò, con devozione, sul luogo. Si racconta, e pare confermato da un manoscritto, che il ritrovamento fosse accompagnato da un miracolo: un
contadino di nome Giuseppe, cieco da tredici anni, condotto dai parenti in pellegrinaggio, appena baciata la sacra effige, riacquistò la vista.
Il XIV secolo fu un periodo molto duro nell'entroterra siciliano, costellato di acerrime lotte tra paesi e all'interno di Cerami, tra la popolazione di origine latina e quella catalana.
Un'ipotesi vuole che, proprio durante questo turbolento periodo, per evitarne il saccheggio, le suore nascondessero il quadro della Madonna, inchiodandolo ad una trave del soffitto. Quando il
monastero fu abbandonato dalle suore, il quadro fu dimenticato e venne sepolto tra le macerie, appena il soffitto crollò. In ogni caso è poco probabile che una icona di questo pregio finisse
abbandonata, oppure, ancora più difficile, che non sia stata nota anche alla controparte catalana. Le icone miracolose sono state da sempre, e continuano ad esserlo, una fortissima attrazione per
grosse frotte di fedeli.
Durante l'epoca iconoclastica si registrarono in Sicilia continui flussi di monaci basiliani, fuggiti dall'oriente con le loro meravigliose icone e favoriti dalla Santa Sede stessa, che più volte
si era pronunziata a favore delle sacre immagini. D'altro canto la presenza bizantina a Cerami è più che dimostrata dai rinvenimenti archeologici. Durante questo periodo probabilmente vi fu un
primo insediamento monastico, in prossimità del torrente, in modo da poter avere con maggiore facilità risorse idriche; se ne vede uno analogo anche a Mandanici, in provincia di Messina.
Similmente a tutti gli altri casi, si può stabilire che in ogni monastero che veniva fondato i monaci portassero con sè una icona miracolosa, che sarebbe poi stata oggetto di culto nel nuovo
insediamento. Durante il periodo della dominazione araba, molte di queste icone furono nascoste alla meno peggio per salvarle dal saccheggio o peggio dalla distruzione degli arabi, che (non
dimentichiamolo) erano venuti in Sicilia per una guerra di religione. Questa ipotesi da sola non basta tuttavia ad accreditare una datazione dell'opera. Sul piano stilistico si tratta di
una icona di tipo "Galaktotrophousa", colei che allatta, tema originariamente diffuso in Egitto in ambito copto, in Palestina ed in Siria. A Bisanzio questa variante iconografica fu accolta con
una certa perplessità perché ritenuta troppo naturalistica, anche se efficace per mostrare la verità dell’incarnazione; nel VII secolo, durante la sfida dell’iconoclastia, papa Gregorio ne
promosse la venerazione, come attesta una sua missiva indirizzata all’imperatore Leone III Isaurico: «Tra le icone da venerare si trovano anche la rappresentazione della santa Madre che tiene tra
le mani il nostro Signore e Dio e lo nutre con il latte». Sta di fatto che le prime icone prese di mira durante il periodo iconoclastico furono proprio queste. Parecchie icone di questo tipo,
particolarmente venerate dagli ordini cavallereschi, furono portate in Europa dall'Oriente durante il periodo delle Crociate, ma questo non spiega il perchè una icona così pregevole debba essere
stata nascosta. Un'altra ipotesi vuole che l'icona sia stata portata in Sicilia da Giorgio Maniace, famosissimo condottiero bizantino, che nel 1038 salpò dai Balcani ed usando come testa di ponte
Reggio Calabria, sbarcò a Messina, che conquistò in pochi giorni. Successivamente la spedizione si diresse verso l'antica capitale dell'isola, Siracusa, che resistette fino al 1040, prima di
cadere nelle mani dei bizantini. Nel 1040, Giorgio Maniace, tra Randazzo e Troina sconfisse le truppe musulmane di Abd Allāh. Grato alla Santissima Vergine, Maniace fece costruire due monasteri:
quello di località "Rahai" e quello in località "Gargia" (oggi Lavina). Dopo circa un anno finiva la primavera cristiana in Sicilia, Maniace in manette faceva ritorno a Bisanzio e la Sicilia
veniva rioccupata dagli arabi. In quel periodo probabilmente venne nascosta l'icona. Una datazione al carbonio sul legno della tavola potrebbe da sola individuare quale delle ipotesi risulti
essere vera.
Nel 1740 V. Amico testimoniava l'esistenza dell'icona con queste parole:
Il monastero di monache è adorno del titolo di Santa Maria della Lavina, sotto gli
istituti di san Benedetto; erano quelle un tempo fuori il paese; stanno oggi sotto il tempio principale, e mostrano una antichissima tavola di Madonna, illustre per meravigliosi
prodigi.
Lexicon topograficum siculum, Catania, 1740
L'icona misura 60cm x 160cm ed è disposta su una proporzione di 3:8. Maria è assisa in trono con due angeli oranti ai fianchi, simbolo della moltitudine celeste. La presenza
del cuscino ai piedi è tipica delle immagini orientali. Alle spalle della vergine si intravedono due veli uno sulla destra e l'altro sulla sinistra che indicano che la scena si svolge
all'interno, inoltre la forma superiore appuntita della tavola, composta da un triangolo isoscele indica la montagna sacra. Con buona probabilità l'autore voleva indicare lo svolgimento della
scena nell'ambito del Tempio di Dio. Il bambino si nutre teneramente del latte della Madre e fissa il suo sguardo esattamente sulle labbra di Maria come a volerne accogliere il nutrimento dei
suoi insegnamenti. Il volto di Maria appare sereno, mentre la Sua mano sinistra accarezza dolcemente il mantello del bambino, mentre la destra lo sorregge attraverso un cuscino curvo, il tutto
contribuisce a creare uno splendido momento di intimità fra Madre e Figlio. Il maforion che copre il capo della Vergine-Madre di Dio è di colore bleu e marrone e rappresentano la sua umanità di
creatura di Dio, mentre i risvolti in oro ne simboleggiano la natura divina. Il mantello della Vergine, così come quello del Bambino e coperto di fiori a sei petali simboleggianti il "fiore della
vita", chiamato anche "Sesto giorno della Genesi" poiché ottenuto dalla 'rotazione' di sei cerchi o sfere, corrispondenti ognuna ad un giorno della Creazione, rappresenta la struttura
interna del Creato, ed il suo completamento. È un simbolo antichissimo, che è stato trovato in tutto il mondo ed in ogni cultura. Era conosciuto, ad esempio, dai primi cristiani copti, che lo
incisero sulle pareti del tempio di Ibis, a El Kharga o nelle mura dell'Osireion di Abydo. Gli inserti in oro del vestito formano invece una "tau", prefigurazione del supplizio a cui il Figlio
andrà incontro. Cancellata dalle intemperie, a malapena, sul capo si distingue una delle tre tipiche stelle che ornano i dipinti mariani, segno della Sua verginità prima, durante e dopo il parto
di Gesù, la particolarità risiede nella colorazione argentea della stella, significante la chiarezza lucente e brillante del cielo, in contrasto con il tipico colore oro. In modo del tutto
originale lo sfondo è costituito da un fine broccato impreziosito da decorazioni rosse e verdi; non si notano, forse perchè cancellate dalle intemperie, le tipiche scritte liturgiche.
Dopo il ritrovamento della sacra icona, che le suore Benedettine vollero trasferire nella nuova chiesa di San Benedetto annessa al monastero nel centro abitato, nel luogo fu costruita una chiesetta rurale, oggi divenuta Santuario, dove venne collocata un'altra immagine della Madonna col Bambino, artistico dipinto su pietra di pregevole fattura, di autore ignoto del Seicento.
A questa immagine miracolosa è legata la singolare devozione dei Ceramesi. La sacra icona che ha preso il nome di Madonna della Lavina, rappresenta in realtà, secondo la tradizionale iconografia, la Madonna delle Grazie detta così perché nell’atto di allattare il Bambino Gesù. Lo stile ci presenta una immagine d’impronta barocca e non essendoci nessuna indicazione sulla data, possiamo far risalire l’immagine al Seicento.
La Madonna ha un volto dolce e delicato: messa in posizione seduta, accoglie fra le sue braccia il suo divin Figlio che con la bocca poggiata al seno materno guarda l’osservatore piuttosto che la Madre.
L’icona è stata arricchita di una splendida cornice ovale a sua volta contornata da una corona di fiori dipinti su di un tavolato che finisce con un’altra cornice che da all’intera composizione la forma rettangolare.
Recentemente nell'anno 2009 il quadro originale della Madonna è stato restaurato a cura del Centro Regionale di Restauro di Palermo
(Ufficio stampa Centro Regionale di Restauro)
Una Madonna dal viso dolcissimo, l’incarnato delicato, due occhi profondi, allatta il Bambino tra due angeli: è la Virgo Lactans di Cerami (Enna), la Madonna della Lavina, tavola quattrocentesca che è vissuta, pressoché nascosta e protetta dal culto dei fedeli, da tempo immemorabile, nell’abbazia di San Benedetto a Cerami.
Una Vergine fanciulla, ritratta in un momento di straordinaria intimità col figlio: ritorna alla sua originale, splendida bellezza grazie al lavoro certosino dei tecnici del Centro regionale di Restauro che ha scoperto il dipinto in pessimo stato. Sono così tornati alla luce i colori brillanti, le figure della Madonna assisa sul trono, del Bambino e dei due angeli, ma anche lo sfondo bruno, il cuscino ai piedi tipico delle immagini orientali. Alle spalle della Vergine si intravedono due veli, a destra e a sinistra, che indicano che la scena si svolge all’interno, mentre la forma superiore appuntita della tavola, un triangolo isoscele, indica la montagna sacra. Il bambino si nutre teneramente del latte della madre e fissa il suo sguardo esattamente sulle labbra di Maria come a volerne accogliere il nutrimento dei suoi insegnamenti. Il volto della Madonna appare sereno, la mano sinistra accarezza dolcemente il mantello del bambino, mentre la destra lo sorregge attraverso un cuscino curvo. Il maforion che copre il capo della Vergine è marrone (natura umana) con risvolti d’oro (natura divina).
L’INTERVENTO
Si tratta di un dipinto a tempera su tavola in pino nero (166 x 63 cm, e 2 cm di spessore), con una cornice lignea, postuma, dipinta e dorata (circa 30 cm di larghezza) entrambe cuspidate sulla parte superiore. Prima dell’intervento l’opera si presentava in pessimo stato di conservazione: la superficie era molto offuscata da un film grigiastro, dovuto probabilmente alla colla di un antico restauro, si notavano diffuse ridipinture, numerose lacune del film pittorico e della preparazione. La tela era in alcune zone distaccata dalla tavola e con strappi sulle aureole della Madonna e del Bambino; e numerosi fori e chiodi sulla superficie raccontavano l’applicazione di ex voto, oggetti devozionali e ornamentali. La struttura lignea era in generale compatta, ad eccezione di alcune zone infestate dai tarli.
La principale causa del degrado è stata individuata nella “fragilità” degli strati preparatori e del colore, che durante il restauro sono stati consolidati. Le restauratrici Alessandra Longo e Arabella Bombace con la consulenza del restauratore Alberto Finozzi hanno preparato numerosi campioni ad imitazione dell’originale per scegliere il consolidante da utilizzare ed in quale percentuale applicarlo. Per il restauro delle parti pittoriche è stata utilizzata l’elaborazione informatizzata di ritocco virtuale su supporto digitale. Per una corretta lettura, si è preferito reintegrare le piccole lacune degli incarnati e trattare le grandi ed estese mancanze di colore con la tecnica della “tinta neutra” (di certo non invasiva) eseguita direttamente sulla tela. Il Centro di Restauro ha anche condotto un’indagine sull’ambiente dove verrà custodita la Madonna della Lavina e dettato le linee guida per la sua corretta conservazione.